Quest'anno ho vissuto da verace cittadino di
Bevagna - come sono in realtà per vincoli parentali se non anagrafici -, quel magnifico, eroico, struggente "caravanserraglio" che è il Mercato delle Gaite. Una kermesse lunga dieci giorni, interminabili per rischio, entusiasmo, passione, dedizione. Si fa presto, dall'esterno, per dir così come utilizzatore finale di fregnacce (arvoltoli), strepitose grosse frittelle (dolci o salate, ossia cosparse di zucchero o di sale) fatte di pasta di pane e tuffate nell'olio vergine d'oliva bollente; oppure come occupante, con le natiche, delle panche nelle taverne febbrili e servizievoli, assiepate e allegre (si è ilari sia quando ci si accinge a ingozzarsi sia quando la pancia è piena e lo spirito sazio); si fa presto a dire che le feste e le rievocazioni si somigliano come le famiglie felici di Lev Tolstoj nell'incipit di "Anna Karenina". Non è così, a Bevagna le taverne sono site in antiche cantine o stalle, con i muri e gli archi che grondano storia e profumano d'antico, e vi si mangia davvero bene, e vi si beve il vino buono di queste vigne, compreso quell'infuso che si chiama ippograsso, aromatico liquore che farebbe contenti Ganimede e Giove. E i costumi a Bevagna sono fedeli all'iconografia più agguerrita, e i mestieri sembrano così ben riprodotti che respiri l'aria del Trecento, e gli angoli di villaggio di quel secolo li assapori nella loro intatta tipologia, sia davanti a chi, in camicione e in cuffia bianca, maneggia con destrezza aerea acciarino, pietra focaia (diaspro) ed esca fino a soffiare la fiamma, che è bella, sulla paglia, sia in fonderia, dove si battezzano campane sonore, sia in cartiera (gualchiera) dove Francesco Proietti dagli stracci di cotone ricava fogli di immacolata carta bambagina, fatta alla maniera arcaica, richiestissima dagli artisti. Un piccolo mondo antico rivive dal passato, e vive di passione e di abilità, di compostezza e di alta recitazione, e dove il medico fa il cassiere e l'avvocato il vinaio, il vicesindaco mesce il sidro e il farmacista serve a tavola, in un incessante richiesta di piatti e di vino e di fregnacce e di biscotti e di salsicce da acquolina in bocca. Quest'anno ho vissuto, pur con il tempo ballerino e malignetto, le piogge sempre in agguato, la temperatura in calo da indossare maglioni e l'ombrello in mano, l'ansia della gente delle Gaite, la preoccupazione di non avere pubblico e turisti sufficienti a oliare i gangli della complessa e costosa macchina teatrale che è il Mercato delle Gaite, formidabile esempio di comune interesse, di partecipazione umile e silenziosa, e di amore per la propria terra e per le proprie tradizioni. Ho ascoltato battute come questa:
"Preparare è niente, smontare e riporre è la vera fatica."
La fortuna è sì cieca, ma qualche volta premia gli audaci, e così la gente ha gremito il corso e i vicoli, si è assiepata sulle panche dei punti di ristoro e delle quattro attivissime taverne, ha pagato l'esile biglietto per visitare botteghe e mestieri: così il sorriso è rispuntato negli occhi dei Consoli Massimo Ricci (San Giorgio), Gian Luigi Properzi (Santa Maria), Enrico Galardini (San Pietro), Silvio Bellini (San Giovanni), e in quelli del Podestà Folco Barattini. Anche l'anno prossimo cercherò di vivere da compaesano la magia della festa. A proposito, il Palio di Bruno Ceccobelli l'ha vinto la Gaita San Giovanni con 28 punti. Domani è un altro giorno, e sappiano le altre Gaite (seconda San Giorgio, terza San Pietro, quarta Santa Maria) che in realtà non hanno perduto, non hanno vinto, semplicemente
Antonio Carlo Ponti
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